Primo Marella Gallery Milano è lieta di presentare, per la prima volta negli spazi milanesi, la nuova mostra personale dell’artista etiope Tegene Kunbi - Patchwork Freedoms.
Tegene Kunbi nasce nel 1980 ad Addis Abeba, Etiopia. Si laurea in Pittura ed Educazione Artistica presso la Fine Arts School dell'Università di Addis Abeba nel 2004 iniziando poi ad insegnare alla Kotebe College Academy.
Con l'aiuto della prestigiosa borsa di studio DAAD, infatti, nel 2008 lascia la sua terra madre per continuare i suoi studi all'Universität der Künste di Berlino, dove ottiene un Master of Fine Arts nel 2011. Partecipa così a numerose mostre collettive e personali in Germania e all'estero, nonché a progetti e workshop internazionali in collaborazione, esponendo a Parigi, Casablanc, New York, Nairobi, Nouakchott e Amsterdam.
Kunbi è il vincitore del Main Prize Grand Prix Léopold Sédar Senghor alla Biennale d'Arte di Dak'Art 2022. L'artista ha ricevuto questo prestigioso riconoscimento direttamente da Macky Sall, il Presidente della Repubblica del Senegal, in occasione dell'inaugurazione della 14a Biennale d'Arte Africana Contemporanea 2022.
In una delle sue molteplici interviste dichiara: «Il colore è un vocabolario che uso per dare voce agli aspetti del mio patrimonio culturale. Ogni tonalità dialoga con quella successiva, producendo un senso di armonia e tensione. Anche la tonalità, la densità e la stessa griglia rettilinea sono parte integrante dell'opera.» e continua: «Attraverso questo linguaggio trasmetto il dinamismo e la complessità della mia esperienza personale e di quella della mia comunità. La struttura di fondo dei dipinti si ripete in un ampio corpus di opere. L'ordito e la trama sono intrinsechi a quelli dei tessuti etiopi utilizzati nelle cerimonie religiose, che sono allo stesso tempo fonte di ispirazione e, più recentemente, materia viva delle opere. Questo quadro estetico viene rafforzato e sfidato contemporaneamente durante il processo di pittura, che di per sé è un rituale e anche una lotta per recuperare una forma di spiritualità.»
Le opere di Tegene Kunbi sono squarci di colore, materia vibrante capace di colpire lo spettatore. Il forte e accecante tono, l’uso corposo delle pennellate riprendono una sorta di primitivismo: di adorazione della vista e delle tonalità primordiali della terra, dell’Etiopia. La pittura a olio pare prendere vita, avere un proprio sostegno, dai verdi accesi che ricordano le distese d’erba e piante, agli squillanti rossi e arancioni, chiaro riflesso agli avvallamenti argillosi tipici della terra Africana. I blu spesso così intensi riprendono indubbiamente l’assoluta purezza del cielo e del mare. Le tonalità di cui Tegene Kunbi fa uso sono quelle della sua terra, di una terra antica e ricca, per molti anni, e troppi ancora, costretta a stare in ginocchio. Una terra che non è lontana e arida come spesse moltevolte viene ritratta, bensì piena, vitale e afferrabile. Ed ecco il perché di pennellate così materiche, non c’è l’intenzione di una descrizione, Kunbi non desidera solamente ritrarre i paesaggi, quello che l’artista agogna è invece far trapelare l’organicità del suolo, la forza spaventosa del mare e il frizzante movimento del fogliame. Non è una ripresa paesaggistica, è, semmai, la volontà di rivalsa, l’affermazione dell’esserci ancora, da parte di tutta una cultura, del suolo in cui essa è nata e dal quale è stata allieva.
La bravura di Kunbi gli permette di spaziare da lavori alquanto piccoli a superfici ben più grandi, qualità e destrezza che gli permettono di giocare con le dimensioni e il volume delle tele. Non c’è paura in lui, non esiste timore, quella che viene messa in atto è la pura padronanza del mezzo pittorico, non c’è esitazione o incomprensione: è respiro. È vita, esigenza prima di riversarsi, di impadronirsi dello spazio e mostrarsi nella sua meraviglia e ponderosità.
Le griglie che vengono utilizzate in continuazioni non fermano il potere espressivo dell’opera bensì la incanalano. L’uso dei colori è sorprendente, anche se incatenati a una griglia spaziale e che all’apparenza paia limitarli, quest’ultima di fatto è incapacitata a restringerli e a frenarli; è indubbia ripresa dell’espressionismo astratto, e ancora meglio dei lavori tonali di Rothko. L’uso massiccio di una modulazione sottostante invece si riaffaccia alle infinite caotiche scacchiere di Mondrian. Ciò che però distingue Tegene Kunbi dai due pittori novecenteschi è l’introduzione, spesse volte, del tessuto come a sottolineare ancora una volta la sacralità e la prova di una esistenza: l’Etiopia, il suo popolo, la sua storia e i suoi riti.
Il tessuto, che lui stesso afferma essere atto nuovo, quasi appena nato, è ciò che più di tutto permette ai lavori di questo artista di emergere; si integrano perfettamente con lo sfondo tonale, ne diventano un tutt’uno, ma, al contempo, hanno questa capacità di impreziosirlo, di donargli maggiore vivacità, non di colore, bensì di spirito.
Il filato scelto, cioè quello di uso religioso, infatti viene usato proprio in un contesto che definiremmo particolare e questo lo arricchisce ulteriormente di significato. Se a un primo interfacciamento potremmo acconsentire a descrivere le opere di Tegene Kunbi come a una lotta intera fatta di rese, battaglie finite in egual misura o vittorie schiaccianti… in un secondo momento tutto ciò che si può osservare prende nuova forma, fa un passo indietro, si stabilizza e si veste, letteralmente di sacralità. La guerrigliera voglia di sopraffare l’altro, altro non è che il desiderio di fuori uscire. È la passione che celebra la vita e la vita stessa che esalta e glorifica la storia di un popolo. I colori inneggiano, così facendo, alle antiche storie, ai canti, alle speranze fatte di gesti e preghiere. E tutto ciò trova il suo posto proprio grazie ai tessuti pronti a onorare le antiche danze fatte di melodie arcaiche e colori sgargianti.
La pittura è descritta da Kunbi come un rituale, ma cos’è un rituale se non gesti continui e movimenti attui a pennellare e a colorare precisi momenti della vita? Cos’è un rituale se non una veste fatta di ricordanze e celebrazione della storia passata? Cos’è un rituale se non la voglia di unirsi in un ballo collettivo fatto di persone che senti essere parte integrante della stessa famiglia?
Ed è proprio disfacendo questo intreccio fatto di domande, un po’ come si seguono le molliche di pane, che arriviamo al cuore di queste opere e della loro poetica: il colore, sulle tele, ingaggia sicuramente una lotta, ma questa non comporta il tentativo di voluto ammutinamento che porta gli uni a essere contro gli altri, ma, al contrario, una coesione, una unione su più fronti, per riuscire a intraprendere un unico viaggio alla scoperta e al disvelamento di ciò che siamo.