Fenice ante fata resurgo: Arvin golrokh
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Panoramica
Primo Marella Gallery Lugano è lieta di presentare Fenice ante fata resurgo, la nuova mostra personale di Arvin Golrokh.
La sua nuova mostra, intitolata Fenice, ante fata resurgo, si propone di indagare tra oscurità e speranza il simbolismo della fenice. Le opere esposte raffigurano un paesaggio apocalittico avvolto dalle tenebre, in cui l'oppressione e le difficoltà sembrano annichilire ogni barlume di luce. Tuttavia, in questo scenario desolante, affiora l'istinto di sopravvivenza umano, simile a uno squarcio che si apre nel cuore dell'oscurità. Come la fenice che rinasce dalle proprie ceneri, questi dipinti incarnano la potenzialità di una rinascita che germina dall'abisso stesso della disperazione. Il degrado della condizione attuale, il marchio del nostro tempo, è reso visibile nelle opere e invita lo spettatore a una presa di coscienza critica. Questo percorso diventa un'esortazione a riconoscere gli inganni e le giustificazioni della società contemporanea. È una riflessione che trascende la dimensione estetica per approdare a un livello filosofico più profondo. I dipinti non sono un richiamo alla speranza, ma piuttosto un invito a confrontarsi con la realtà del degrado e delle contraddizioni sociali. Le rovine e le immagini bruciate che popolano la mostra non offrono soluzioni, ma pongono domande aperte, in attesa di una rinascita che deve essere trovata nel confronto critico con la realtà. Questo processo di presa di coscienza è lasciato alla soggettività dello spettatore, che è chiamato a formare i propri giudizi e a determinare il proprio modo di rispondere alle sfide presenti.
Ecco ciò che Demetrio Paparoni scrive nell'incipit del suo saggio "L’abbraccio di Arvin Golrokh":"Il mito della fenice che rinasce dopo essere stata trasformata in cenere da fiamme purificatrici ha origini antichissime e la sua simbologia è migrata da una cultura a un’altra, adattandosi alle diverse sensibilità. Il titolo Ante fata resurgo che Arvin Golrokh ha dato a questa mostra è una variazione del motto della fenice “post fata resurgo”, locuzione latina che, esprimendo fiducia nella capacità di risollevarsi e di vincere le avversità della vita, evoca il concetto di rinascita. Riflettendo sul fatto che la rinascita implica la morte, e porta dunque con sé la sconfitta, Golrokh ha modificato il motto della fenice in “ante fata resurgo”, che esprime l’idea di un’opposizione assai più radicale al corso degli eventi, a quello che sembra un destino già scritto.
È proprio alla capacità di opporsi e resistere che alludono i dipinti di questa mostra che, se in un primo momento sembrano aderire a una visione cupa e disperante, a una più attenta osservazione fanno avvertire il diradarsi delle tenebre che avvolgono i soggetti e lasciano spazio a bagliori di luce. "© Demetrio Paparoni
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Installation Shots
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Opere
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Arvin Golrokh, La Fenice 3, 2023
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Arvin Golrokh, La Fenice 4, 2023
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Arvin Golrokh, La Fenice 5, 2023
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Arvin Golrokh, La Fenice 7, 2024 Sold
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Arvin Golrokh, La Fenice 8, 2024 Sold
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Arvin Golrokh, La Fenice 9, 2024
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Arvin Golrokh, La Fenice 11, 2024
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Arvin Golrokh, La Fenice 12, 2024
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L’abbraccio di Arvin Golrokh
testo di Demetrio PaparoniIl mito della fenice che rinasce dopo essere stata trasformata in cenere da fiamme purificatrici ha origini antichissime e la sua simbologia è migrata da una cultura a un’altra, adattandosi alle diverse sensibilità. Il titolo Ante fata resurgo che Arvin Golrokh ha dato a questa mostra è una variazione del motto della fenice “post fata resurgo”, locuzione latina che, esprimendo fiducia nella capacità di risollevarsi e di vincere le avversità della vita, evoca il concetto di rinascita. Riflettendo sul fatto che la rinascita implica la morte, e porta dunque con sé la sconfitta, Golrokh ha modificato il motto della fenice in “ante fata resurgo”, che esprime l’idea di un’opposizione assai più radicale al corso degli eventi, a quello che sembra un destino già scritto.
È proprio alla capacità di opporsi e resistere che alludono i dipinti di questa mostra che, se in un primo momento sembrano aderire a una visione cupa e disperante, a una più attenta osservazione fanno avvertire il diradarsi delle tenebre che avvolgono i soggetti e lasciano spazio a bagliori di luce.
Golrokh dipinge d’istinto e usa colori forti. La sua è un’arte simbolica e narrativa dai risvolti politici ed esistenziali, che tende a mostrare la realtà non per come appare, ma per come la percepisce nel profondo del suo essere. I suoi soggetti sono figure umane, autorità politiche e religiose, animali, paesaggi, città, fabbriche, processioni, cortei ed esodi intrisi di sofferenza. Nella sua tavolozza predominano rosso di alizarina, blu oltremare, terra di Siena bruciata, verde veronese (utilizzato
prevalentemente per le velature) e soprattutto il nero. Molto nero, «come nei dipinti di El Greco», precisa l’artista. Il nero d’avorio, quando non ricopre la gran parte della superficie del dipinto, è usato per definire i contorni delle figure; il nero fumo, con il suo tocco di rosso, per sporcare i colori e accentuare le increspature della superfice e i contrasti.
L’immagine non è mai limpida e, anche quando ha una luce solare, è comunque tragica, travagliata, disincantata, cruda, e talvolta cattiva verso i soggetti raffigurati, la cui natura e identità risultano esplicite ad alcuni e criptiche ad altri. Densi di riferimenti alla storia e alla geopolitica, i suoi quadri mettono alla prova la nostra conoscenza del mondo, suggeriscono che essere consapevoli del ruolo giocato dal potere politico e religioso è il primo passo necessario per prendere coscienza della propria reale condizione e avviare strategie di resistenza. Ecco la matrice espressionista di questi lavori che poco hanno a che vedere con l’espressionismo storico della prima metà del XX secolo, pur se lasciano affiorare l’eco delle pennellate pastose di Chaim Soutine e di Oskar Kokoschka, intrise di atmosfere drammatiche, toni cupi e immagini distorte che sembrano affogare nell’impasto del colore.
Il dipinto che dà l’avvio alla serie Ante fata resurgo raffigura una fenice in fiamme in uno scenario buio. Contrariamente ad altri lavori di questo ciclo, il soggetto occupa quasi tutta la superficie del quadro. Non si intravvedono sul fondo segni che rimandano a città, alla natura o a persone. Siamo in presenza di un luogo assoluto, che fa sintesi dei tanti luoghi in cui all’azione distruttiva di un potere corrisponde la reazione di chi quella prepotenza si rifiuta di subire. Non è alla finitezza dell’uomo che la fenice di Golrokh si ribella, quanto alle sopraffazioni, alle limitazioni della libertà prive di senso.
La figura della fenice in fiamme ritorna in una tela più piccola con lo stesso titolo, che l’artista ha contrassegnato con il numero 12. In questo caso l’uccello mitologico si presenta con il corpo giallo che le fiamme non hanno ancora aggredito totalmente. Nonostante la numerazione dei titoli lasci pensare a un procedere progressivo, Golrokh ha lavorato contemporaneamente ai dipinti di questa mostra utilizzando i suggerimenti che ha tratto dagli interventi su ogni singolo lavoro per trovare una migliore soluzione formale e coloristica per gli altri. Questo metodo di lavoro testimonia come ognuno di questi dipinti concorra a definire una narrazione unitaria all’interno della quale Golrokh mette in scena una forma di resistenza dalle molteplici valenze – psicologiche, politiche ed esistenziali – che racconta il vissuto di esseri umani che non si arrendono, quale che sia la condizione di disagio che stanno vivendo.
Concorrono a drammatizzare la narrazione le assi di legno recuperate da vecchie finestre, che Golrokh utilizza come cornici. Annerite, parzialmente bruciate, incomplete, irregolari, scheggiate, in alcuni casi con le cerniere e i cardini arrugginiti ancora attaccati, queste cornici portano la memoria delle macerie da cui provengono. Parte integrante dell’opera, manifestano subito la loro natura, visualizzano l’intensità del disastro che ha coinvolto una comunità.
Nell’affrontare il rapporto con l’altro, Golrokh dà peso al ruolo dei legami familiari nella vita dell’individuo. Nello stesso tempo estende il concetto di famiglia a quanti condividono un’ideale e si danno supporto morale e materiale. Questo concetto è alla base di un nucleo di sette dipinti (Fenice 1, 2, 3, 4, 5, 6 e 11) presenti in questa mostra, tutti su fondo nero, in cui sagome umane si abbracciano, si toccano, si tengono vicine come a proteggersi l’un l’altra. La luce che le investe colorando di bianco alcuni elementi dei corpi non definisce i lineamenti delle figure, rendendole evanescenti, a cavallo tra il reale e l’immaginario. Non sappiamo se si tratti di una famiglia, di due amanti, di una madre che bacia un figlio o una figlia, di un padre che abbraccia un figlio o una figlia. Non sappiamo se la loro vicinanza è reale o solo desiderata. Avvertiamo il profondo bisogno di unità messo a rischio dall’oscurità che circonda la scena, e ci rendiamo conto che anche questa è la rappresentazione di una forma di resistenza e di opposizione a un destino. Affiora un’iconografia antica legata al tema dell’abbraccio, tema mai venuto meno nella Storia dell’arte. In un gioco di sovrapposizioni questi lavori portano con sé la memoria di temi classici quali il ritorno del figliol prodigo e la Sacra famiglia;In Fenice 6 avvertiamo poi un rimando al Bacio (1897) di Edvard Munch, ma anche a Les amants (1928) di René Magritte.
Golrokh ha la consapevolezza di quanto le immagini possano essere ambigue, di quanto un piccolo slittamento linguistico possa sovvertire il loro significato o aprire a interpretazioni diverse. Questa consapevolezza gli viene dall’analisi che egli ha fatto delle immagini della propaganda politica. I sistemi totalitari, quale che sia la loro matrice, hanno sempre utilizzato immagini rassicuranti e idilliache della società per dimostrare che quello governato da loro è il migliore dei mondi possibile.
La Germania del Terzo Reich, per esempio, ha dato sostegno a quegli artisti che veicolavano attraverso le loro opere il modello della famiglia ariana, all’interno della quale i ruoli di genere erano rigorosamente definiti. Alla vigilia della Seconda guerra mondiale, nel descrivere una famiglia contadina di Kalenberg riunita attorno a un tavolo, Adolf Wissel ha disposto le figure in modo da creare una scala gerarchica in cui l’uomo occupa la posizione più elevata. Siede accanto a lui il figlio maschio e, dalla stessa parte del tavolo, la nonna, una donna operosa che solleva lo sguardo dal suo lavoro a maglia. Una delle bambine, più in basso nella composizione, è intenta a disegnare, mentre la più piccola siede in braccio alla madre. La figura della donna è quella di chi accudisce e dà molti figli alla patria. I bambini sono biondi e coloriti, la prole sana di una grande nazione.
Apprezzato da Hitler, che lo acquistò, il dipinto nasce come opera propagandistica destinata ad essere riprodotta e diffusa. In altri dipinti di nuclei familiari o di amici che vivono nelle campagne tedesche Wissel mantenne lo stesso schema formale, così come negli stessi anni mantennero eguale schema formale le raffigurazioni che Ivo Saliger fece della famiglia contadina tedesca o di gruppi di persone in osteria.
Nella Germania di quello stesso periodo l’arte ha tuttavia fornito anche altre visioni della società. Tra quanti hanno lavorato al tema dell’abbraccio occupa un posto di rilievo Käthe Kollwitz, artista antimilitarista che ha perso un figlio nella Prima guerra mondiale e un nipote nella Seconda. Quello raffigurato da Kollwitz è un abbraccio che avvolge l’altro con tutto il corpo e con forza, come a voler impedire che la persona amata le possa essere strappata via. Il tratto nero marcato che modella la forma incarna la disperazione del legame spezzato e il dolore del lutto.
Golrokh ha visto per la prima volta l’opera di Kollwitz nel 2008 quando, studente sedicenne del liceo artistico, visitò la mostra Cinque settimane con Käthe Kollwitz ed Ernst Barlach al Museo d’Arte Contemporanea di Teheran. Da allora l’interesse per l’artista tedesca non è venuto mai meno ed è proprio ai suoi disegni e alle sue grafiche che Golrokh fa riferimento nei dipinti su fondo nero incentrati sul tema dell’abbraccio. Una comparazione tra questi dipinti con l’acquaforte intitolata Frau mit totem kind (Donna con il figlio morto, 1903) rende evidente l’interesse per Kollwitz, artista che rimase sempre fedele alla sua visione dell’arte e a cui in Germania fu a lungo vietato esporre, nonostante il suo nome non fosse annoverato tra quello dei cosiddetti “artisti degenerati”.
L’impegno di Kollwitz, come già detto, si è declinato anche in chiave antimilitarista. Il tema della devastazione non è estraneo a Golrokh, che in Fenice 9 e nei quattro dipinti intitolati Nekropolis dà immagine a territori divorati dalle fiamme. Le immagini, sempre ambigue, non perfettamente riconoscibili, ci interrogano sulla loro natura. Forse un grande incendio ha distrutto una foresta o una città o un’area industriale. Oppure una enorme colata di lava incandescente sta attraversando questi territori e, mentre li distrugge, sta seminando quel che domani li renderà fertili. In Fenice 9 una massa informe bianca lascia pensare a una colomba in fuga da un luogo in fiamme. A ben guardare l’uccello non ha la testa, mentre alla sua sinistra una stoffa bianca è sospinta dal vento. «Quel drappo è per me una presenza eterea, potrebbe essere un segno di salvezza, una guida verso la luce» spiega l’artista. E aggiunge: «Quando l’ho dipinto avevo in mente il velo della Veronica di El Greco».
Ultima Fenice, ma non in senso cronologico, è quella che l’artista ha contrassegnato con il numero 10. In questo caso la superficie del dipinto è quasi interamente occupata da una figura femminile con il capo coperto da una hijab, il velo che le donne islamiche indossano come segno di rispetto dei precetti del Corano, ma che in alcune aree geografiche è imposto e oggetto di controllo da parte della polizia morale.
L’uso di coprire la testa da parte delle donne, condiviso dalle religioni monoteiste legate alla Bibbia, assume nelle diverse confessioni significati diversi. Nell’ortodossia ebraica a coprire il capo sono solo le donne sposate, e questo perché la chioma è considerata oggetto di attrazione sessuale; nel cristianesimo invece le donne coprono il capo, in particolare in Chiesa, come espressione di umiltà di fronte a Dio. Tanto nell’ebraismo quanto nel cristianesimo con il passare del tempo questa tradizione è sempre più in disuso, e in ogni caso non ha implicazioni politiche, come accade nell’Iran post-rivoluzionario dopo il 1979. Nella cultura islamica, tuttavia, laddove non rappresenta un obbligo, oltre ad esprimere rispetto verso l'autorità religiosa il velo conserva il suo significato simbolico di modestia e riservatezza da parte di chi lo indossa. Anche nella tradizione della pittura rinascimentale il velo sul capo suggerisce modestia e riservatezza. Le vergini di Antonello da Messina, le Madonne di Giovanni Bellini o la Maddalena di Girolamo di Savoldo sono solo alcuni dei tanti esempi che si potrebbero portare. Non è tuttavia alla storia dell’arte che guarda Golrokh in questo dipinto, quanto all’uso che dei simboli fa la propaganda politica.
In Fenice 10 il volto della donna, parzialmente coperto da una mano scheletrica, è una massa nera priva di tratti distintivi. A definire il carattere cupo e drammatico della rappresentazione concorrono le pennellate cariche di colore e i frammenti materici di pittura a olio quasi asciutto trasferiti dalla tavolozza sulla tela e sulla cornice. Questo conferisce al dipinto la dimensione tattile dell’altorilievo e allude allo stesso tempo a una realtà che sta andando in frantumi, come rimarca lo stato della cornice che, incompleta, porta i segni dell’usura e delle fiamme che l’hanno corrosa e le cui parti mancanti mettono in evidenza l’impatto violento che ha spezzato il legno in alto e in basso a destra.
Completano questo ciclo Piazzale Loreto, Keoeddon e Fenice 7, dipinti dai colori squillanti e dunque apparentemente in contradizione con le visioni apocalittiche della fenice in fiamme, delle città bruciate o degli abbracci dolorosi. In questi dipinti il differente registro pittorico è rimarcato, oltre che da una tavolozza solare, dall’assenza di cornici.
In Piazzale Loreto un personaggio con un turbante in testa ci appare a prima vista maestoso, come accade con le statue guardate dal basso. Il suo corpo privo di gambe è sorretto da un bastone nero, che ne fa l’equivalente di un vestito vuoto appeso a una gruccia. Altro eroe tragico è quello raffigurato in Keoeddon tra una vegetazione rigogliosa. I volti di questi due personaggi sono deformati e non riconoscibili, ma presentano entrambi, nel loro abbigliamento, i simboli del potere. Sono leader politici o religiosi, capi carismatici capaci di manipolare la realtà. Sono personaggi capaci di spargere disperazione per il mondo. In Keoeddon si avverte l’eco di Francis Bacon, penso in particolare a Figure in a Landscape (1945), a Figure Study 1 (1945-46) e agli studi per il ritratto di Van Gogh (1957). E c’è l’eco della pittura di Bacon anche nella deformazione del volto dell’uomo, che rende il soggetto irriconoscibile, seppure non del tutto. L’altro quadro senza cornice, Fenice 7, ritrae due religiosi con la barba e il turbante ai lati di una rigogliosa pianta verde dai frutti rossi. Alle loro spalle si intravvedono nel buio un palazzo malmesso e delle persone. A uno dei due è volato via il turbante. «Penso che sia stato un colpo di vento, non saprei», mi dice Golrokh.
© Demetrio Paparoni, Milano 2024